Prima che l’emergenza sanitaria scoppiasse, Alessandro De Chellis, consulente del lavoro di Ancona, scrisse per noi questo articolo. Lo scopo era quello di raccontare la sua storia. Una storia che parla di una scelta che in molti avrebbero giudicato discutibile fino a poche settimane fa, oggi forse verrebbe da dire essere stata quasi provvidenziale.

Da dove siamo partiti?

– La professione di Consulente del Lavoro è una di quelle classiche attività professionali caratterizzate da elementi che sembrano quasi imprescindibili. Uno studio fisico che faccia da “vetrina” verso il cliente è sicuramente uno di questi e forse il più radicato nella cultura professionale tradizionale (avvocati, commercialisti, ecc.). Quando io e mia moglie, anche lei consulente del lavoro con cui condivido la gestione dello studio, abbiamo deciso di rompere completamente con questo schema il processo, mentale prima e pratico poi, non è stato semplice.

Un primo elemento da chiarire subito è che la necessità di cambiamento non è nata dall’oggi al domani; è stato un percorso lento, personale e professionale, che ci ha cambiato radicalmente il modo di vederci come persone e professionisti. Sviluppare una visione dello studio nei successivi dieci anni, immaginare i cambiamenti che sarebbero intervenuti nel contesto esterno (mercato professionale, evoluzione del modo di vedere la professione, nuovi servizi, esigenze e obiettivi personali da raggiungere) non è stato semplice, ma ha giocato un ruolo fondamentale.

Una volta raggiunta la quadra “mentale” il processo tecnico/pratico ha avuto inizio non senza difficoltà.

Le sfide da affrontare

La prima sfida da affrontare è stato il giudizio sociale: pareri (per lo più non richiesti) e frasi quali ad esempio “ma poi i clienti cosa penseranno che non vedono più la targa” oppure “e se qualcuno pensasse che ve la passate male economicamente e quindi tagliate i costi”, o ancora “con questa scelta sappiate che potreste perdere dei clienti”. Sono state solo alcune delle frasi che ci siamo sentiti dire e che, se non ci fosse stata la convinzione e la visione di cui sopra, avrebbero minato sicuramente la buona riuscita del progetto.

Da ormai quattro anni siamo uno studio totalmente in smart working, tutto lo staff è in remoto alternando il lavoro da casa con quello in un coworking con cui abbiamo stipulato una convenzione (con la serenità di poter lavorare da ovunque si voglia senza problemi). L’accordo individuale con la nostra collaboratrice, che ha avuto la funzione di beta test che ora applichiamo a qualsiasi altro collaboratore entri nell’organizzazione, prevede flessibilità di orario distribuita sulle otto ore pur in presenza di un orario base, che è lo stesso di quando avevamo lo studio fisico, collocato al mattino. Per la parte di lavoro svolta da casa abbiamo deciso di coprire le spese, riproporzionate all’effettivo utilizzo, che la lavoratrice sostiene per connessione wi-fi, utenze e cancelleria.

Il supporto tecnologico

Il cambiamento così radicale ci ha obbligato a una riflessione sulla tecnologia da implementare. Siamo passati da un sistema di documenti condivisi all’interno di una rete internet di studio, con una gestione che prevedeva l’uso prevalente di carta, a dover rivedere completamente i sistemi di condivisione e collaborazione da remoto. La scelta è caduta sulla G Suite di Google adottando, dunque, Drive per lo storage dei documenti condivisi e Gmail per la posta elettronica (migrando le mail di studio sulla piattaforma). Trello è stato, invece, individuato come bacheca condivisa fissa per gli aspetti gestionali a corredo (regolamentazione privacy, sicurezza sul lavoro, norme comportamentali, welcome board per i nuovi collaboratori, ecc.).

Il lavorare a distanza, situazione prevalente salvo per le giornate in cui ci trasferiamo nel coworking, ci ha imposto di ragionare su sistemi sia di chatting istantanea, per le comunicazioni quotidiane, che di conference per riunioni da remoto più strutturate. Dopo un iniziale utilizzo del solo Skype, nel tempo, abbiamo diversificato, per migliorare l’esperienza di lavoro e l’efficacia, introducendo anche Zoom per le videoconferenze, Telegram per le comunicazioni quando si è in trasferta presso clienti e lasciando a Skype il ruolo di chat istantanea.

Formazione e retrospettiva

L’adozione di tutti questi strumenti e la loro collocazione in parti diverse dei processi lavorativi, ci ha obbligato a un ulteriore salto di qualità: la formazione costante e il rafforzamento della nostra visione d’impresa e di dove vogliamo arrivare. Solo in questo modo si riescono a decodificare le esigenze e, di conseguenza, trovare le relative soluzioni. 

Un dettaglio fondamentale, in tutto il processo di trasformazione, è stato quello di non perdere mai di vista le persone e le loro esigenze all’interno dell’organizzazione. Proprio perché il lavoro da remoto non può essere dato per scontato, in termini di piena accettazione e adeguatezza delle persone, abbiamo sviluppato dei piani di formazione costante che spaziano dalle competenze tecniche (avvalendoci di provider esterni di formazione) a quelle tecnologiche (con riunioni interne periodiche per discutere di limiti e problematiche emersi sugli strumenti utilizzati) fino a quelle di natura comportamentale con percorsi di coaching che rafforzino l’attitudine positiva delle persone.

In definitiva, l’esperienza di trasformazione da studio tradizionale a studio smart è da considerare assolutamente positiva. Non ha determinato alcuna defezione nei servizi o nella produttività ma ha, invece, assolutamente determinato un miglioramento della qualità di vita e lavoro in tutte le persone coinvolte e della capacità di adattarsi ai cambiamenti del mercato e delle esigenze della clientela –

Alessandro de Chellis